Storia di Viaggio: Aretuza

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Mi chiamo Alissa Henson, e sono una maga.

Mi presento per buona educazione, ma la verità è che non voglio che nessuno, al di fuori di me stessa, legga queste parole. Tuttavia, se non sei me e stai leggendo queste righe, allora credo che dovrei almeno spiegarti perché le ho scritte, in primo luogo.

Tutto iniziò con qualcosa che mia zia, Aurora Henson, una volta mi disse:

"A un certo punto della tua vita, rifletterai sul viaggio compiuto fino a quel momento e sentirai l'impulso irrefrenabile di ricordare il tuo passato. Poiché, per coloro che hanno la nostra longevità, questo sentimento è in qualche modo inevitabile, e si manifesterà più di una volta. Perciò, ti lascio questo consiglio: prendi appunti lungo il cammino, il maggior numero possibile."

E, guarda un po', pare che la mia cara zietta avesse ragione. O forse, il semplice suggerire una cosa del genere era invero una sorta di profezia che si auto-avvera, un seme piantato molto tempo fa da qualcuno molto più saggio di me. Avrei sentito questo persistente bisogno di raccontare il mio passato, se non avessi trascorso così tanti anni a documentarlo diligentemente? Avrei trovato uno spreco non farlo, giusto? Se è così, mi ritrovo a ringraziare la zia a prescindere, poiché ho trovato grande conforto nel processo terapeutico di autoanalisi nel corso degli anni. E lo trovo ancora oggi.

Certo, non devo sforzarmi di ricordare, dato che l'avevo messo per iscritto ai tempi, ma ho ben impresso nella mente il momento in cui mi disse per la prima volta quelle parole. Eravamo sedute in una carrozza che stava percorrendo una strada terribilmente accidentata e noiosamente lunga che mi avrebbe condotta fino all'isola di Thanedd, dove sarei diventata, proprio come la zia, una maga di Aretuza. Trovo difficile esprimere a parole l'eccitazione che mi scorreva nelle vene durante il viaggio, ma se dovessi definire con una parola come mi sentivo, "elettrizzata" sarebbe alquanto adeguata. Sapevo che sarei stata una maga dal... beh, dal mio primo ricordo di vita. A differenza di molte e molti altri che trovano la propria strada negli illustri androni di Aretuza e di Ban Ard, io ero predestinata. Almeno, questo è ciò che mi era stato detto da mia zia e dalla sua cara amica Agnes (che consideravo a sua volta una sorta di seconda zia, sebbene più distante). Sapere che sarei diventata una maga significava che avevo trascorso gran parte della mia giovinezza aspettando con impazienza il giorno in cui sarebbe accaduto. E da bambina impaziente quale ero, vivevo quell'attesa come un inquieto calvario, all'apice del tormento. Con mio grande dispiacere, zia Aurora mi diceva spesso che le possibilità che Aretuza ammettesse una bambina così piccola erano nulle. Non importava quanto e come tale bambina supplicasse. Cosa che, col senno di poi, era più che giusta.

Passai gran parte della mia giovinezza a immaginarmi nei panni di una maga, con tanto di cappello a punta, abiti eleganti e fluenti e bacchetta pronta a lanciare ogni sorta di incantesimo, sebbene, perfino da bambina, sapessi che non era davvero così che apparivano coloro che praticavano le arti arcane. Lo sapevo perché avevo già trascorso molto tempo con i maghi, dato che Aurora mi portava sempre con lei ogni volta che lasciava Gors Velen per far visita a colleghi e conoscenti. Incontrai perfino i membri fondatori del Capitolo del Dono e dell'Arte prima di poter camminare o parlare, cosa che, come mi veniva costantemente confermato, era un privilegio raro.

In effetti, quello fu il momento in cui ebbi il mio primo "evento incontrollabile", come viene spesso definito quando un bambino manifesta per la prima volta un'affinità per la magia. Non ricordo personalmente i dettagli, ma la storia mi è stata raccontata più volte, crescendo. Dopo tutti questi anni, mi ritrovo ancora a sorridere al pensiero di Herbert Stammelford che saltellava isterico, cercando freneticamente di levare il letame di cavallo dal suo mantello. "Che schifo! Che schifo!" gridava. Ancora oggi mi sento offesa dalle sue accuse, secondo le quali avevo meramente usato le mani per lanciargli addosso gli escrementi, e dal suo rifiuto categorico di credere che una bambina della mia età, "Una ragazzina, niente meno!", fosse capace di una così formidabile abilità telecinetica. L'ultima volta che lo incontrai, disse di aver completamente dimenticato l'evento e dubitò perfino che fosse realmente accaduto. Penso che fosse ancora imbarazzato.

A ogni modo, il giorno in cui ci recammo per la prima volta ad Aretuza su quel terribile carro avevo undici anni. Relativamente giovane per un'adepta, cosa che ancora oggi mi riempie di orgoglio. Ancora non capisco perché non ci limitammo a usare un portale, ma probabilmente quella era anche una sorta di non manifesta lezione sulla pazienza. Alla zia piaceva davvero accudirmi, sia dentro sia fuori dall'aula. In realtà, avevo già visto la scuola molte volte, da lontano, ma mai fino ad allora mi era stato dato il permesso di visitarla. Zia Aurora aveva preso una posizione piuttosto netta sulla questione, replicando spesso alle mie suppliche con un autorevole ma placido "quando sarai pronta, piccola". Dovevo quindi restarmene nella sua vicina residenza di Gors Velen mentre lei insegnava, ma fortunatamente potevo almeno guardare con desiderio la scuola dall'altra parte della baia. Col senno di poi, era forse più una maledizione che una benedizione, poiché non faceva altro che alimentare ulteriormente le fiamme della mia impazienza.

Ora, dopo tutti questi anni, mi ritrovo travolta da una sensazione di nostalgia mentre leggo le parole che scrissi tanto tempo fa. Le prime parole che stesi dopo il consiglio di Aurora, per la precisione, scarabocchiate su un pezzo di pergamena avanzato mentre la nostra carrozza si fermava fuori da Aretuza:

"Sono qui. Sono finalmente qui! Questo è il momento più bello della mia vita!"

Ricordo di essere saltata giù dalla carrozza, davanti alla scuola, e di essere rimasta sbalordita, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata. In quel momento, ero sicura, più sicura di qualsiasi cosa nella mia vita fino ad allora, che diventare una maga di Aretuza fosse la sola e unica cosa che volevo in assoluto.

È strano come le cose cambino...

A coloro che non hanno mai avuto il privilegio di vedere Aretuza e l'isola su cui si trova, invito caldamente a rimediare. È bellissima, dentro e fuori. Anche se, a meno di non avere affari importanti o conoscenti influenti, temo che la maggior parte dell'edificio rimarrà un mistero per i più. Ai visitatori, e perfino ai clienti, non è concesso di entrare a Loxia, il livello più basso dell'isola. Detto questo, la vista che si gode da Gors Velen è spettacolare, e in una giornata limpida si riesce a vedere l'intera isola di Thanedd, con il gigantesco blocco di pietra del palazzo di Garstang, come scolpito nella roccia da cui si erge, coronato da cupole dorate che brillano alla luce del sole; e la svettante torre solitaria di Tor Lara ("La Torre del Gabbiano"), che si staglia alta sopra il promontorio e la cui sommità si perde tra le nuvole; e, naturalmente, la stessa Aretuza. Lo scenario è quantomeno pittoresco.

Ancora oggi resto a bocca aperta alla bellezza di tutto questo. Ma, all'epoca, il timore reverenziale che provavo era semplicemente soverchiante.

Il mio primo giorno ad Aretuza fu, come annotai allora, un momento meraviglioso! L'eccitazione che coltivavo da così tanti anni finalmente aveva trovato una valvola di sfogo. Sorridevo in maniera incontrollabile. Saltellavo come una cavalletta impazzita. Facevo tante, troppe domande. Non volevo sembrare una bambinetta frivola e impertinente, ma non riuscivo a trattenermi. Fortunatamente, penso che le altre ragazze fossero troppo occupate a badare al proprio comportamento per prestare attenzione al mio.

Ma come spesso capita, il mio entusiasmo, o l'eccesso dello stesso, ben presto svanì. Complice la mia educazione, avevo già sviluppato una certa confidenza con i rudimenti della magia. Così, certo non per colpa della scuola, trovai le prime lezioni piuttosto semplici e, mi addolorava ammetterlo, parecchio noiose. Ma capii che era così che doveva essere. Dovevo adeguarmi. La zia aveva messo bene in chiaro che non avrei ricevuto alcun trattamento di favore in nessuna circostanza, poiché non voleva che altre studentesse la tacciassero di nepotismo. E, se è per questo, neppure io.

Nonostante le noiose lezioni introduttive, mi divertiva molto discutere di magia, e praticarla, in compagnia delle altre studentesse. Era emozionante notare lo stupore di coloro che non avevano ancora familiarità con i fondamenti di quel potere che avrebbero dovuto imparare a padroneggiare per tutta la vita. O, almeno, quelle che ce l'avrebbero fatta...

All'inizio eravamo sette "iniziate", ma una di noi non superò gli esami di ammissione. Un evento sfortunato e tuttavia previsto, mi dissero, poiché non tutti coloro che vivono un evento incontrollabile possiedono la giusta attitudine alla magia. Ancora oggi non capisco bene come quelle prove potessero sondare le nostre capacità, poiché non avevano alcuna relazione tangibile con l'uso della magia o la conoscenza delle pratiche arcane. Consistevano principalmente nella valutazione di forme, schemi ed elementi, insieme a una serie di domande su temi piuttosto peculiari e un po' sconnessi. Dal mio ingresso, gli esami di ammissione sono cambiati varie volte, spesso in concomitanza con l'arrivo di una nuova direttrice, e le iterazioni successive hanno certamente raggiunto un senso più pratico. Alla fine avevo superato l'esame, ed era l'unica cosa che contava. (Oh, che imbarazzo, se la nipote di Aurora Henson, la straordinaria bambina della magia, avesse fallito gli esami di ammissione! La vergogna sarebbe stata un fardello insostenibile.)

All'inizio, come appena detto, le adepte erano poche. Così, condividevamo molte lezioni con le studentesse più grandi. Fu durante una di queste lezioni che incontrai per la prima volta la ragazza più gentile che avessi mai avuto il piacere di chiamare amica. Il suo nome era Kalena. Era al quarto anno, all'epoca, e legai con lei fin da subito. Sebbene non fosse la più brillante... anzi, tutt'altro... era cordiale, divertente e premurosa. Mi fece sentire accolta, benvenuta. Era esattamente ciò che cercavo, in una compagna di studi, e sarò per sempre grata di averla conosciuta.

Se l'universo è in un costante stato di equilibrio, come affermano certi studiosi, il giorno in cui avevo trovato un'amica avevo trovato anche una nemica. Si chiamava Yanna, ed era membro della prima classe di Aretuza, a significare che si era già diplomata e, di tanto in tanto, avrebbe dato una mano con l'insegnamento per le studentesse in erba. Temo che le parole, da sole, non renderebbero giustizia nel descrivere il disprezzo che nutrivo verso di lei e verso le sue lezioni: erano semplicemente terribili. Per motivi allora a me sconosciuti, approfittava di ogni occasione per ridicolizzarmi e disprezzarmi di fronte alle altre. Il più semplice degli errori, o perfino una divergenza di opinioni, diventava in men che non si dica una feroce critica alle mie scarse capacità o, nei giorni peggiori, una qualche forma di banalissima punizione, come ad esempio nettare le latrine.

Nonostante il disprezzo che nutrivo per Yanna, sfortunatamente in diverse occasioni dovetti sorbirmi le sue lezioni, poiché c'erano poche insegnanti ufficiali, o "signore", ad Aretuza. Solo quattro, in realtà, ognuna specializzata nel proprio elemento primario: acqua, aria, terra e fuoco. Era, e lo è tuttora, ampiamente accettato che l'obiettivo di una giovane maga fosse quello di padroneggiare solo uno di tali elementi, sempre ammesso che vi riuscisse (cosa tutt'altro che scontata). Fino a oggi, solo uno stregone al mondo è noto per aver dominato tutti e quattro gli elementi. Il suo nome era Jan Bekker.

E ai tempi, volevo disperatamente emularlo.

Per i primi mesi, la maggior parte delle lezioni erano tenute da Aurora. Le adepte più giovani vedevano raramente le altre insegnanti, poiché i loro rispettivi elementi erano considerati troppo avanzati per noi principianti. Mia zia era la Signora dell'Acqua. Essendo l'acqua l'elemento ritenuto più sicuro, era il primo che le maghe dovevano imparare a padroneggiare.

Dall'idromanzia alla manipolazione della mente, trascorremmo la maggior parte di quel primo periodo immerse nell'elemento dell'acqua, studiando i suoi tanti usi benefici e imparando la teoria con metodo e precisione. Fu per me una bella fatica, come si può facilmente intuire, essere così vicina all'impiego della magia e, nel contempo, trattenuta dalle catene del programma di studi. La banalità di quelle lezioni introduttive ormai si è quasi tramutata in un ricordo sfocato, eppure conservo ancora un'immagine molto vivida del nostro primo esercizio.

Avevamo appreso da poco che nel sottosuolo scorrevano innumerevoli canali d'acqua, che si ramificavano praticamente ovunque. Questi canali, e le loro corrispondenti intersezioni, sono una tra le fonti più accessibili da cui i maghi possono attingere il proprio potere, e pertanto un punto di partenza ideale per i neofiti. Per la nostra prima prova pratica, a ognuna di noi era stato chiesto di recuperare un cristallo magico da qualche parte all'interno delle caverne sotto Aretuza. Nascosti in quelle labirintiche profondità, i cristalli erano stati posti sopra la fonte di potere più intensa nelle vicinanze. E qui stava la sfida: dovevamo individuare i canali e le intersezioni più potenti e seguirli fino a scoprire il nascondiglio dei cristalli. Un compito relativamente semplice.

O almeno così pensavo.

Fortunatamente, non dovevamo addentrarci in quei passaggi bui e umidi a mani vuote. Ognuna di noi poteva portare con sé un singolo oggetto che ci avrebbe aiutato nel compito. La maggior parte delle ragazze, alimentate dalla loro ignoranza, scelsero di portare una bacchetta dell'acqua. Una scelta ovvia in superficie, ma sarebbe bastato un attimo di riflessione per capire la sua inutilità in questa sede. Il fatto è che le bacchette dell'acqua possono identificare le intersezioni con relativa facilità, ma non permettono di distinguere la potenza della fonte. In breve, dentro un labirinto di biforcazioni, erano pressoché inutili.

Optai per una scelta poco convenzionale, e decisi di portare con me Furfantello, un micio piuttosto paffuto. Sebbene vivesse nei giardini di Aretuza, nessuno lo aveva rivendicato come proprio, ed era stato considerato affettuosamente come la mascotte della scuola per tutta la durata della sua vita (che, se ben ricordo, fu inverosimilmente lunga). Scelsi lui perché, come la maggior parte dei gatti, poteva percepire le fonti di potere, tanto che si diceva amassero farsi lunghi sonnellini in corrispondenza dei bivi. Furfantello scompariva spesso per ore, a volte giorni, e tornava sempre con un'aura delicata che lo circondava. Mi ero spesso chiesta dove assorbisse quel potere, e avevo ipotizzato che andasse a crogiolarsi nel cuore del complesso sotto la scuola, presumibilmente dove erano nascosti i cristalli. Valeva la pena di tentare. (Nota: nessuno sa come o perché i gatti assorbano la magia. Un dilemma che per secoli ha arrovellato i cervelli più brillanti e curiosi, e uno dei più grandi misteri del nostro tempo.)

Il mio piano, ovviamente, funzionò.

Per così dire...

Passai ore arrancando dietro al gatto mentre vagava con impudente disinvoltura attraverso le caverne senza alcun evidente desiderio di raggiungere una particolare destinazione. Si fermava spesso e si sdraiava senza un motivo specifico, o magari per pulirsi o per giocherellare con un sassolino che attirava la sua attenzione. Tuttavia, il più grande ostacolo, che avrei dovuto prevedere, era l'abbondanza di ratti che vivevano in quelle caverne. Ogni volta che un roditore sbucava da un angolo o da una fessura, Furfantello entrava in azione e lo inseguiva. Ricordo di aver desiderato ardentemente una bacchetta dell'acqua quando, a un certo punto, il mio peloso amico scomparve in uno stretto passaggio alla ricerca di un ratto piuttosto panciuto, e tornò solo dopo una buona mezz'ora.

Dopo un tempo che mi sembrò giorni, Furfantello mi condusse finalmente nella camera segreta. Tuttavia, non fu la vittoria alla quale ambivo così disperatamente. Erano rimasti solo due cristalli, il che significava che ero stata la penultima studentessa a trovarli. Ero affranta. E sebbene, uscita dalle caverne, fossi rimasta imbronciata per un po', scoprii ben presto che la mia situazione avrebbe potuto essere peggiore. E di molto.

L'ultimo cristallo, infatti, non fu mai recuperato.

Zoriyka, una tra le studentesse più anziane e brillanti del nostro anno, non era tornata dalla rete di passaggi sotterranei. Ci rassicurarono sul fatto che fosse una cosa normale, e che accadesse a una o due studentesse ogni anno. Prima o poi, dicevano, trovavano sempre la strada per tornare in superficie. Tuttavia, era ormai giunto il tramonto, e di Zoriyka nessuna traccia.

Quella notte, Nina Fioravanti, la Signora della Terra, guidò nelle caverne un piccolo gruppo di ricerca composto da adepte più anziane. Avevano studiato quei luoghi durante le lezioni di archeologia, per cui avevano acquisito una certa familiarità con i vari cunicoli. Eppure, a quanto pare, il labirinto conteneva numerosi corridoi ancora sconosciuti, e si estendeva molto più in profondità di quanto avrebbero potuto immaginare.

Impiegarono dodici ore a trovare la ragazza, e lei lasciò Aretuza il giorno seguente. Per sempre.

Kalena mi raccontò di essersi imbattuta in Zoriyka quando Klara Larissa de Winter, fondatrice e direttrice della scuola, l'aveva accompagnata in fretta e furia fuori dal cancello per salire su una carrozza. Mi disse che la ragazza non aveva il suo solito atteggiamento allegro. Il viso era pallido e funereo, e i suoi occhi erano vitrei e vacui come se persi in una profonda trance. Quando Kalena le aveva chiesto come stesse, Zoriyka l'aveva ignorata completamente. O forse neppure se ne era accorta. Secondo Kalena, la ragazza era a metà tra l'essere pietrificata e l'essere paralizzata.

Di tanto in tanto, ripenso ancora a quelle caverne. A quello che poteva esserle capitato nel buio delle profondità di Aretuza. O a quello che aveva visto. Le insegnanti, mia zia inclusa, si rifiutavano apertamente di parlare della situazione, e rimproveravano chiunque ne facesse menzione. Tutto quello che so (e che all'epoca mi fu detto) è che, poco dopo l'uscita di Zoriyka dalla scuola, la Signora de Winter ordinò la chiusura a tempo indeterminato di ogni ingresso conosciuto delle caverne, e che la scuola non mandò mai più le adepte a cercare i cristalli nell'oscurità.

Chi mi conosce sa che preferisco un approccio pratico. Mi è sempre piaciuta la teoria, e vi sono sempre stata molto portata, ma niente è paragonabile a un impiego costruttivo delle proprie conoscenze e del proprio talento. Durante la mia permanenza ad Aretuza, fu soprattutto Nina Fioravanti, la Signora della Terra, a infondermi questo apprezzamento per la pratica.

La terra è un elemento ragionevolmente complesso da imparare, e ho sempre nutrito grande rispetto per coloro in grado di padroneggiarlo (erano in pochi, e lo sono ancora oggi). La sua difficoltà deriva dalla sua inefficienza, poiché il potere che contiene, proprio come la struttura della terra stessa, è statico. Non fluisce attivamente, come acqua, aria e fuoco, e quindi non può spostarsi facilmente da un posto all'altro, neppure con una mano magica a guidarlo. Insomma, ci vuole un'incredibile quantità di energia per sfruttarlo, e di conseguenza è poco pratico, soprattutto per i meno esperti.

Dopo un anno di acqua, nient'altro che acqua, (e tutt'al più qualche sporadica lezione di aria), fummo ritenute pronte ad affrontare i rudimenti della terra. Mi ero preparata per alcuni mesi sulla teoria introduttiva, come da consuetudine, ma rimasi piacevolmente sorpresa quando Nina, per la nostra primissima lezione, ci portò in un vicino sito archeologico per assistere a uno scavo. Queste gite proseguirono per quasi un mese, e l'aspetto più singolare fu che non dovemmo usare alcuna magia. Giorno dopo giorno, scavammo trincee, setacciammo il terriccio e classificammo tutti gli oggetti trovati. Principalmente, dissotterrammo minuscole ossa di animali selvatici locali e qualche moneta o gingillo privo di valore.

Anni dopo, scoprii che non avevamo mai rinvenuto nulla di importante perché era tutta una farsa. Almeno in apparenza. Nina aveva usato lo stesso sito archeologico (che non aveva alcun significato storico) con ogni classe che aveva seguito da quando Aretuza aveva aperto per la prima volta le sue illustri porte. Fui messa a conoscenza di questo stratagemma dalla stessa Nina molto tempo dopo, al mio quarto anno, durante uno dei nostri incontri privati.

Nina doveva essersi affezionata a me fin dal primo scavo, giacché, senza esitare o chiedere nulla, mi ero subito fiondata sul compito da svolgere. A differenza delle altre ragazze, non mi ero mai lamentata della situazione una singola volta, anche dopo aver rovinato quasi tutti i miei vestiti con strappi e macchie. E lei se lo ricordava. Ecco perché, anni dopo, mi convocò per un incarico speciale che definì "extracurricolare", e mi fece promettere di non rivelarlo alle altre ragazze (credo di averlo detto a Kalena quasi subito. Scusa, Nina!). Naturalmente, io, l'aspirante prodigio, colsi al volo questa occasione di elevare il mio status di studentessa modello (ah, che adulatrice ero allora!)

Scoprii poi che le responsabilità di Nina andavano ben oltre terriccio e detriti. Da anni si preoccupava di risolvere un peculiare problema relativo a Tor Lara. In cima alla torre vi era un famigerato portale notoriamente instabile, che nessuno usava mai. Secondo il sentire comune, infatti, chi lo usava andava incontro alla morte. E, in effetti, l'intera torre era interdetta a tutte le studentesse. Il portale emanava un potente campo magico che interferiva con la magia vicina, e anche il più semplice degli incantesimi lanciato nei terreni circostanti si sarebbe tramutato in qualcosa di imprevedibile e pericoloso. E così, Nina aveva pian piano infuso le fondamenta di Tor Lara e del vicino palazzo di Garstang con una particolare aura che, una volta consolidata, avrebbe inibito tutta la magia nelle sue vicinanze. Dopotutto, gli incantesimi non possono essere alterati se non possono essere lanciati. Considerato il periodo, fu un'incredibile dimostrazione di ingegneria magica.

Il mio compito era aiutare con la ricerca in generale, fornire assistenza per la procedura di infusione e recuperare eventuali oggetti richiesti dall'insegnante. Praticamente svolgevo mansioni da lacchè, ma non mi importava. Sebbene il lavoro in sé fosse tutt'altro che entusiasmante, la segretezza e l'importanza dell'impresa mi elettrizzavano e mi facevano sentire molto speciale. Inoltre, volevo essere apprezzata, e questo era un modo sicuro per ottenere il favore di Nina.

Fu durante una delle notti al palazzo di Garstang che venni a conoscenza dei piani che Nina aveva architettato i primi anni e degli infruttuosi scavi archeologici. Aveva riso di cuore, divertita e in egual misura rattristata, per gli sforzi e l'impegno di studentesse che non avrebbero mai trovato nulla di significativo in quella farsa. Quando le chiesi spiegazioni, sottolineò la vera natura delle lezioni, e la sua risposta mi provocò un sentimento che porto con me ancora oggi.

"Con tempo e pazienza, chiunque può spostare una montagna, un sassolino alla volta."

Era una verità ben nota a chiunque cercasse di padroneggiare l'elemento della terra, e un atteggiamento che Nina voleva trasmettere alle sue studentesse fin dal principio. Quelle uscite non riguardavano la scoperta di un grande tesoro o di un segreto perduto da tempo. Al contrario, una tale scoperta sarebbe stata dannosa per la lezione che cercava di impartire. Nina voleva che le adepte abbracciassero il concetto di pazienza, duro lavoro e determinazione, anche quando la ricompensa era misera.

"Una maga può impiegare cento anni ad affinare la pratica con il suo elemento, ed essere tuttavia ancora a cento anni dal padroneggiarlo. Chi si sente in diritto di ottenere gratificazione immediata non troverà mai, temo, la vera grandezza."

A volte riporto alla mente queste parole e mi diletto a immaginarmi come vi replicherei a distanza di tutti questi anni.

"Forse, cara Nina, la grandezza non è tutto nella vita..."

Probabilmente, mi avrebbe sbeffeggiato. O si sarebbe messa a ridere.

Il mio evento incontrollabile era stato l'uso della telecinesi (lancio di letame al venerabile Stammelford), pertanto tutti avevano supposto che sarei stata più abile nell'elemento dell'aria e che sarebbe stato quello in cui mi sarei specializzata. In effetti, anch'io mi aspettavo che sarei partita da quello... nel mio viaggio verso il dominio totale di tutti gli elementi, s'intende!

Pertanto, ero incredibilmente entusiasta di apprendere tale elemento sotto la guida dell'illustre maga Agnes, o Agnes di Glanville, la Signora dell'Aria, se vogliamo essere formali, cosa che lei apprezzerebbe. A parte mia zia, Agnes era l'unica persona che conoscevo abbastanza bene. Ricordo che veniva spesso a trovare Aurora, e quindi anche me, e ha rappresentato una presenza costante durante la mia infanzia. Si potrebbe quasi dire che la mia formazione ufficiale sia iniziata molti anni prima che entrassi ad Aretuza. E, considerando le lezioni "spontanee" e gli interessanti aneddoti che avevo ricevuto da parte di Agnes e Aurora, tale affermazione risulterebbe alquanto veritiera.

Ebbi un'infanzia indubbiamente privilegiata. Ero felice, sana e poco esigente (a parte l'ardente desiderio di frequentare Aretuza). Eppure, col senno di poi, l'aspetto più importante di tale privilegio mi era giunto dalla costante frequentazione delle donne più eminenti del mondo magico: nessuna bambina di sei anni avrebbe potuto vantare una parentela così illustre. Non intendo mancare di rispetto alla zia dicendo ciò che segue, ma laddove Aurora era (ed è ancora) molto rispettata e nota, Agnes era di gran lunga delle due la figura d'eccellenza. In pratica, una leggenda vivente.

In un passato non troppo lontano, tutti i maghi erano uomini (un fatto che non sorprenderà nessuno). C'erano donne che potevano sfruttare il potere degli elementi, certo, ma venivano principalmente etichettate come "guaritrici" ed "erboriste", e pertanto ignorate come potenzialmente qualcosa di più. Essere un mago umano godeva di certe tutele, e solo pochi eletti (uomini) erano ufficialmente riconosciuti dai loro pari (uomini) come tali.

Poi arrivò Agnes.

Pare avesse inavvertitamente evocato un vortice spaventoso per il suo evento incontrollabile in tenera età. Secondo la leggenda, questo si trasformò rapidamente in una furiosa tempesta che ridusse in macerie un piccolo villaggio costiero. Credo fermamente che questa storia sia un tantino esagerata (per usare un eufemismo), ma mai oserei esporre tale pensiero ad alta voce. Cionondimeno, ben presto si sparse la voce sulla "bambina miracolosa", che infine giunse alle orecchie di Giambattista (uno dei fondatori dell'Unione di Novigrad, insieme ai suoi pari Jan Bekker e Geoffrey Monck). Desideroso di individuare e identificare i soggetti da cui scaturiva il potere (o "fonti", come vengono chiamati oggi), Giambattista rintracciò la ragazza, pagò profumatamente la madre per la vita della bambina e poi la sottopose alle sue prove magiche (che sarebbero state in seguito introdotte come requisiti di ingresso per Ban Ard).

A differenza degli altri bambini messi alla prova prima della giovinetta, Agnes stupì il mago con le sue innate capacità (lei stessa mi assicurò, in numerose occasioni, che lo lasciò di stucco), e così fu presa sotto l'ala protettiva di Monck, Bekker e Giambattista per apprendere i rudimenti della magia.

Tempo dopo, Monck radunò alcuni dei bambini più dotati, che furono chiamati "Prescelti" e di cui Agnes era l'unica femmina. Poi salpò per Aevon y Pont ar Gwennelen (oggi più comunemente noto come "Pontar") fino a Loc Muinne, dove convinse i maghi elfici a insegnare ai giovani le vie delle Razze Antiche. E così, la fama di Anges si consolidò, poiché divenne la prima donna (o, meglio, ragazza) a ottenere lo status di maga (o "incantatrice", come piace dire a lei).

E questo è praticamente tutto quello che so al riguardo. Varie volte chiesi ad Agnes di raccontarmi del suo tempo trascorso con i saggi delle Montagne Blu. Tuttavia, tutto quello che ottenevo in risposta in tali circostanze era "forse te lo racconterò un'altra volta". Non capisco perché fosse così riluttante a ricordare quel periodo della sua vita ma, la prossima volta che ci incontreremo, la costringerò volente o nolente a raccontarmi qualche aneddoto (forse un po' di liquore la aiuterà a sciogliere la lingua...).

Come dicevo, complice l'influenza di una donna di tale calibro (e anche della zia!), si capisce perché aspettative così alte furono riposte sulle mie piccole e inesperte spalle. Per me, non eccellere nella padronanza delle arti arcane non era semplicemente accettabile, e non c'erano scuse. "Sprecare il tuo potenziale è un affronto a tutti i meno fortunati", mi diceva spesso Aurora. "Hai il lusso di scegliere, perciò scegli con saggezza."

E così, mirai altissimo, poiché quello era il mio dovere.

O, se dovessi definirlo oggi, il mio fardello.

Nonostante i suoi numerosi usi benefici, non si può negare che la magia sia pericolosa, specialmente nelle mani di un mago inesperto. In particolar modo quando si ha a che fare con il fuoco, il più imprevedibile e caotico di tutti gli elementi. In effetti, la maggior parte degli adepti farebbero bene a starne alla larga del tutto, se ci tengono alla loro vita e a quella di coloro che li circondano. Che diamine! Se non si è disposti a sopportare parecchio dolore, la padronanza del fuoco è l'ultima cosa che si dovrebbe perseguire. Questa è una verità che imparai subito durante la nostra prima lezione con Klara Larissa de Winter, Signora del Fuoco nonché direttrice di Aretuza.

Era una donna fredda (ironico, vero?) e indifferente, e passava il minor tempo possibile a seguire le nuove adepte. A prima vista, si potrebbe facilmente commettere l'errore di pensare che a Klara non importasse nulla della sua professione, ma niente sarebbe più lontano dalla verità. La de Winter, infatti, era la fondatrice della scuola e teneva molto all'immagine dell'istituto. Credeva, giustamente, che uomini e donne dovessero essere trattati in egual modo, e che se i primi avevano una scuola (Ban Ard) per sviluppare le capacità degli aspiranti maghi, allora anche le seconde avrebbero dovuto averne una. E fu così che nacque Aretuza.

Quando finalmente arrivò il momento di conoscerla, Klara fu eccezionalmente schietta, e il distacco a cui ho accennato si manifestò chiaramente. Durante la nostra prima lezione sul fuoco, ci disse di non avere tempo per studentesse poco dotate e che avrebbe insegnato solo alle migliori e alle più brillanti. "Una di voi..." aveva detto, serrando la mascella e guardandoci torva con il suo sguardo gelido e penetrante. "Selezionerò una di voi. E nessun'altra."

Ovviamente, ero determinata a essere io l'eletta (dovevo esserlo!), anche dopo il tentativo della direttrice de Winter di deludere tutte le aspettative che avevamo nei confronti dell'elemento.

"Vi ustionerete. Molte volte. Sopporterete il dolore e le difficoltà. E ogni volta che invocherete il potere del fuoco, danzerete con la morte, poiché il fuoco ha tolto la vita a molti maghi, sia dilettanti sia esperti, e la toglierà anche a voi, se non state attente."

Non aveva torto. Il fuoco può essere canalizzato abbastanza facilmente, ma maneggiarlo è tutta un'altra storia. La sua natura imprevedibile, unita all'incredibile quantità di energia che alberga in esso, porta un mago a sperimentare un travolgente picco di potere. E un simile picco è impossibile da controllare. Nel corso degli anni, molti maghi sono periti avvolti dalle proprie fiamme a causa della loro incapacità di gestire tale potenza. Alcuni dei sopravvissuti hanno descritto il momento prima del caos e della distruzione come pura estasi, e taluni hanno addirittura manifestato spudoratamente il desiderio di percepire di nuovo tale potere, anche a costo della loro vita o di quella di chi li circonda. Immagino che da un grande potere derivi il potenziale per una grande corruzione...

Naturalmente, la mia idea era sempre quella di dominare tutti e quattro gli elementi, e non fui certo dissuasa dalle parole di Klara. O, almeno, non finché non conobbi il prerequisito per entrare a far parte della sua classe. Fu la prima volta in cui la vidi sorridere. Un sorriso... sinistro, quasi un ghigno beffardo. Con grande precisione e altrettanta lentezza, tese la mano e girò il palmo verso l'alto. Poi disse, placidamente:

"Chi riuscirà a prendere la mia mano, verrà considerata per la mia classe."

Poi fece un peculiare gesto con le dita. La sua mano cominciò a brillare di rosso e arancione. La sua pelle si riempì di vesciche, bruciò e poi si carbonizzò, iniziando a colare dall'appendice infuocata. Al posto della pelle delicata e candida c'erano ora cinque dita fuse, sfrigolanti e fumanti.

La sfida era evidente.

"Volete giocare con il fuoco? Dovete essere pronte a bruciarvi."

Nessuna si mosse. La maggior parte non respirò per qualche secondo. Non ci saremmo mai potute immaginare una simile lezione introduttiva.

Non avrei biasimato le altre ragazze per aver pensato che potesse essere una trovata di qualche tipo. Uno scherzo per rompere il ghiaccio. Ma io sapevo perfettamente che non lo era. Lo vidi negli occhi di Klara. Era terribilmente seria, e questa era la dedizione che esigeva. Non avevo altra scelta. Dovevo agire. E così, feci un passo esitante verso la mano rovente e allungai la mia, lentamente e deliberatamente. In quel momento, sperai che il gesto sarebbe stato sufficiente. Che alla direttrice de Winter sarebbe bastata l'intenzione.

Ma lei rimase impassibile. Il suo sguardo algido fisso su di me. Aspettava...

E così, non mi restava che una cosa da fare...

Chiusi gli occhi, afferrai saldamente la sua mano e... gridai.

I Quattro Regni vantano due importanti scuole per maghi. La Scuola per Maghi di Ban Ard a Kaedwen e la Scuola per Maghe di Aretuza a Temeria (forse un giorno non ci sarà più bisogno di tenere maschi e femmine separati, ma per ora è così). Chiunque conosca un minimo la natura umana non troverà strano che tra le due istituzioni c'è una rivalità che perdura sin dalla loro nascita.

Gli insegnanti di entrambe le scuole si incontrano regolarmente per discutere di importanti questioni relative alla magia e al suo utilizzo, e sono sempre più interessati alle vicende politiche dei Regni Settentrionali. Tuttavia, si riuniscono soprattutto per spettegolare e vantarsi dei successi della rispettiva accademia di provenienza. Ho avuto modo di incontrare molti dei ragazzi di Ban Ard. Ebbene, eviterò ogni forma di umiltà e dichiarerò apertamente che, almeno dal punto di vista accademico, le ragazze surclassano i ragazzi quasi ogni anno. Ma la vera competizione non riguarda gli esami e le valutazioni, oh no! Gli alunni di entrambe le scuole sanno benissimo che il prestigio più grande va al vincitore annuale dello Scontro del Caos (soprannominato come tale dagli studenti in via ufficiosa).

Ogni anno, le due scuole si incontrano per un'esibizione (o, meglio, una sfida) di competenze accademiche e fisiche organizzata dalla vincitrice dell'anno precedente. Ho perso il conto di chi ha vinto la maggior parte delle volte, ma una cosa è certa: entrambe le scuole sono molto agguerrite. Per ogni ragazza di Aretuza, questo fatto è fonte di grande gioia, poiché è noto quanto i ragazzi prendano la gara sul serio. Così seriamente che la formazione per lo Scontro ha la priorità su tutti gli altri studi accademici, cosa che probabilmente spiega perché Aretuza se la cava spesso meglio su quel fronte.

Uso della magia a parte, non c'è niente di straordinario in questa occasione, poiché sono sicura che eventi simili hanno luogo in tutto il mondo. D'altronde, la competizione piace a molti! Ad oggi, nell'arco di tre giorni le scuole si impegnano in varie attività ed eventi, che vanno dalla creazione di pozioni alla risoluzione di problemi, fino a percorsi a ostacoli e duelli (l'ultimo dei quali è l'evento più prestigioso e sancisce la fine dei giochi). I punti vengono quindi conteggiati, al vincitore o alla vincitrice viene assegnato il Trofeo del Dono e dell'Arte (o "la Coppa dello Scontro") e le scuole passano la notte banchettando, ballando, giocando e festeggiando (o piangendo per la sconfitta). Bisogna dire che è uno dei momenti più emozionanti dell'anno, e c'era sempre un certo fermento nelle settimane che precedevano l'evento quando ero ancora una studentessa. E sono sicura che sia ancora così.

Sebbene la maggior parte degli studenti abbia un qualche ruolo nello Scontro (il lavoro di squadra è una parte fondamentale dell'esperienza), è l'evento principale che tende a rubare la scena. E quello, come da tradizione, è una faccenda uno contro uno. Come è logico aspettarsi, lo studente più importante viene scelto per rappresentare la scuola come Finalista di Aretuza o di Ban Ard, e i due adepti si affrontano in un duello avvincente e per certi versi pericoloso. Il vincitore di questa sfida finale riceve una generosa quantità di punti, e il risultato di solito (ma non sempre) determina la scuola vincitrice. Come è facile immaginare, i due duellanti si sentono addosso una pressione davvero notevole.

Nel mio terzo anno ad Aretuza, la direttrice de Winter mi scelse per rappresentare la scuola... con grande sgomento di Yanna, che aveva partecipato come Finalista ai due precedenti Scontri. Avevo assistito alle escandescenze di Yanna in varie occasioni, ma non l'avevo mai vista così incollerita come quando comunicarono che a rappresentare la scuola nella finale del torneo sarei stata io. "Come può essere LEI il volto di Aretuza?!?" aveva strillato. "Non è nemmeno stata imbellita!"

E aveva ragione. Non lo ero stata. Avevo ancora tutte le imperfezioni che mi rendevano... me. Le mie compagne di classe non capivano, ma non mi aveva mai sfiorato l'idea di alterare magicamente le mie sembianze e quindi mi ero rifiutata di sottopormi a tale procedura.

Yanna, al contrario, l'aveva fatto alla prima occasione. Non ho mai scoperto che aspetto avesse originariamente, ma correva voce che, prima del cambiamento, avesse il volto pieno di macchie e denti storti da coniglio. A guardarla, era impossibile immaginare trascorsi simili, dato che la sua pelle pallida riluceva come porcellana, il suo sorriso era perfetto e i suoi lunghi capelli ramati cadevano sempre nel modo giusto per incorniciare il suo bel visino simmetrico. La procedura, in breve, aveva completamente estirpato ogni percepibile imperfezione. (Mi chiedo come sarebbe senza i suoi "miglioramenti"... comunque carina, immagino. Magari in maniera più naturale.)

Perfino Kalena, che sosteneva sempre le mie scelte, mi aveva assillato per giorni, tentando di convincermi a... provarci. Ma a me piaceva essere me stessa. E mi piaceva guardare lo specchio e vedere la mia figura che mi fissava, non un'affascinante sconosciuta che imitava i miei movimenti. Perciò, rifiutai di sottopormi alla procedura (non che non potessi alterare il mio aspetto in seguito se comunque avessi cambiato idea, quindi non capivo tutto questo clamore).

Alla fine, i deliri e le rimostranze di Yanna fecero ben poco per cambiare il corso degli eventi. Ero stata scelta io, e Klara non era il tipo di donna che ripensa alle proprie decisioni. E sicuramente non le avrebbe riconsiderate per il capriccio di un'apprendista. Era dunque deciso. Dovevo affrontare il miglior studente di Ban Ard al torneo annuale dello Scontro del Caos.

All'epoca, ero così fiduciosa delle mie capacità che il pensiero di perdere non mi sfiorò neppure per un istante.

Credo si possa definire arroganza.

Quella particolare finale dello Scontro del Caos fu probabilmente il momento più imbarazzante di tutta la mia permanenza ad Aretuza (ma non il più sconvolgente, sfortunatamente). Affrontai un ragazzo di bassa statura chiamato Gereon, la cui personalità potrei solo descrivere come viscida. Non ricordo di aver mai visto quel suo sorrisetto furbo scomparire dal suo viso, nemmeno per un singolo istante.

Di tutti i ragazzi contro i quali avrei potuto perdere, ovviamente mi capitò lui!

Nelle settimane precedenti allo Scontro, ero stata addestrata a lungo da Klara in persona, che aveva introdotto per l'occasione sessioni individuali quotidiane in aggiunta al programma ordinario. Persino Yanna si era offerta di aiutarmi a prepararmi quando Klara aveva altre faccende di cui occuparsi. "Non voglio che la Finalista di Aretuza faccia sfigurare la scuola che rappresenta", mi aveva detto con un tono che non le avevo mai sentito usare, quasi incoraggiante e amichevole. Dopo che la sua rabbia si era placata (o, almeno, mitigata), si diede molto da fare per aiutarmi e mi dedicò gran parte del suo tempo libero. Ma tutti i consigli e il sostegno fecero ben poco per prepararmi alla resa dei conti che mi aspettava.

Gereon, con grande sorpresa di tutti, si servì di una magia che non aveva ancora usato nessuno nei precedenti giochi. Aveva un talento naturale nella disciplina delle illusioni, e si avvalse di trucchi che ingannavano i sensi per spiazzarmi. Pochi istanti dopo l'inizio del duello, mi trovai davanti a svariate copie di Gereon (oltre una decina) senza la minima idea di quale fosse quella vera. Rimasi pietrificata di fronte alla folla di spettatori di Aretuza e Ban Ard, completamente imbambolata. I miei occhi passavano in rassegna quegli infiniti volti, tutti con lo stesso identico sorriso presuntuoso. E tutti con la stessa identica risata, che echeggiava intorno a me prendendomi in giro mentre attaccavo e mancavo il bersaglio, più e più volte, incapace di individuare il vero Gereon.

In breve tempo consumai tutte le mie forze e rimasi esausta, divenendo facile preda per il ragazzo. Con un'improvvisa raffica di vento, il vero Gereon mi scagliò contro una colonna di pietra, lasciandomi senza fiato e rendendomi inerme. E lì la sfida si concluse. Gereon fu incoronato campione, e Ban Ard vinse lo Scontro del Caos per un margine insignificante. Io mi ritrovai a crogiolarmi nell'autocommiserazione, affranta e confusa, con il cuore spezzato e tanta vergogna per me stessa.

"Aspettati sempre l'inaspettato." Furono le uniche parole che ci scambiammo Gereon e io. Le pronunciò aiutandomi ad alzarmi dopo la sfida, con il labbro arricciato da un lato e un sopracciglio alzato in segno di compiacimento. All'epoca detestai quelle parole, e ancora non le sopporto. Voglio dire, come ci si può preparare per l'inaspettato? Non ha alcun senso! (Anche se forse non avrei dovuto essere così presuntuosa prima del duello, magari era questo che intendeva. Anche se, considerando il suo stesso comportamento, sarebbe stato terribilmente ironico.)

Quella sera non partecipai alla festa dopo il torneo. Ero troppo abbattuta, e così mi chiusi nelle mie stanze, imbronciata. L'idea di trovarmi in un salone brulicante di ragazzi di Ban Ard pronti a prendermi in giro mi provocava ansia e nausea, così come il pensiero di affrontare le coetanee che avevo deluso mi faceva sentire miserevole. Dopo la cerimonia di chiusura, avevo evitato anche la zia Aurora, terrorizzata da quello che avrebbe potuto dirmi. Avevo immaginato le sue parole: "Non sono arrabbiata, cara Alissa, sono solo... delusa". Sentivo il terrore salire fino alla punta dei capelli. (In verità, fu molto indulgente quando parlammo della cosa. Mi resi conto che simili situazioni sono spesso peggiori nella mente, e che la realtà è diversa.)

Nonostante Kalena, come scoprii in seguito, si fosse invaghita di uno degli studenti di Ban Ard, abbandonò le sue ambizioni di corteggiamento nel momento in cui si rese conto che non ero presente alla festa. Mi trovò nella mia afflizione e trascorse il resto della serata a confortarmi. O, almeno, all'inizio. Dopo un po', le mie incessanti lamentele la frustrarono a tal punto che fece qualcosa di totalmente inaspettato. Mi diede una strigliata.

"Piantala di fare la sciocca e cresci! Tua zia non ti ha già detto che, nella vita, non puoi essere la migliore in tutto? Che diamine, i più non riescono nemmeno a essere i migliori in una singola cosa. Sei davvero abile per l'età che hai, questo va detto. Sei intelligente e determinata. E conosci molto del mondo e della magia. Ma sei troppo vanagloriosa e, oserei dire, anche egocentrica. Il mondo non gira intorno a te, per quanto la cosa possa scioccarti. Per un attimo, per un singolo attimo, smettila di cercare di fare colpo e di dimostrare il tuo valore a tutti, e prova solo, beh... a esistere. A vivere. Prova e divertiti. Perché tutta la grandiosità e i riconoscimenti del mondo non significano un accidente, se non sei felice."

Fu la prima volta che rimasi spiazzata davanti alle parole di Kalena. E mai mi sarei aspettata che tali parole sarebbero state così pregne di saggezza. E invece lo erano. Chiare e tonde.

Dopo avermi concesso un momento per elaborare il suo rimprovero, mi convinse ad accompagnarla nel salone dove i festeggiamenti erano ancora in pieno svolgimento. Era insolitamente persuasiva, perciò accettai senza pensarci due volte. E guarda un po'? Nessuno mi prese in giro. Nessuno mi incolpò di nulla. Nessuno era turbato dalla situazione (tranne me, inizialmente). E, alla fine, passai una tra le notti più belle della mia vita.

In quel momento non me ne resi conto, ma quella chiacchierata con Kalena fu un punto di svolta per me. Per la prima volta in assoluto, avevo riflettuto su chi ero davvero e, cosa più importante, su chi volevo davvero essere, a prescindere dalle aspettative degli altri. Per la prima volta, avevo messo in dubbio il mio "destino".

Jan Bekker, il Maestro degli Elementi, era comparso ad Aretuza molte volte durante il mio soggiorno, principalmente per partecipare agli Scontri (per supportare i ragazzi di Ban Ard, naturalmente). Tuttavia, un anno, dopo la schiacciante vittoria di Aretuza, decise di prolungare la sua visita e di insegnare nella scuola per un semestre. Durante il suo discorso di presentazione, dichiarò di aver notato un enorme potenziale di qualità in alcune ragazze e di volerle assistere nella loro "ricerca dell'eccellenza", offrendo una serie di consulenze approfondite. Eppure credo fermamente che fosse un mero stratagemma, e che in realtà stesse solo cercando di capire come la direttrice riuscisse a imporre disciplina e capacità nelle studentesse, un aspetto in netto contrasto con l'insubordinatezza dei ragazzi di Ban Ard (problema che esiste tutt'oggi, a dimostrazione che il suo stratagemma è in qualche modo finito in niente).

Per coloro che non hanno familiarità con il Maestro Bekker, la sua ideologia generale e il suo approccio all'educazione magica possono essere riassunti da un estratto del suo discorso di presentazione (la cui interezza occupò quasi venti fogli di pergamena dei miei appunti):

"Se non si espandono i confini di ciò che è possibile, allora si fa un affronto al Dono e all'Arte. Ricordate questo: è nostro dovere perseguire l'eccellenza, raggiungerla, superarla e creare nuove vette che toccherà valicare ai nostri successori. Come maghi, accontentarsi di meno è semplicemente inaccettabile. Ed è nostro obbligo ritenere i nostri pari responsabili di qualsiasi mancanza. Solo insieme, attraverso forza e solidarietà, possiamo sperare di cambiare la forma della nostra realtà per il bene superiore di tutti..."

Insomma, era un uomo molto... appassionato. Ma suppongo che uno debba esserlo, per raggiungere le imprese che ha conseguito. Indipendentemente da ciò, in quel momento assaporai ogni singola parola, poiché quelle sensazioni rafforzarono ciò che mia zia mi aveva già insegnato. Eppure, fece scattare in me quello che adesso definirei un momento di tremenda debolezza e distorta priorità. Con le sagge parole del Maestro Bekker che mi risuonavano nelle orecchie, ero convinta di dover accogliere il suo consiglio nella sua interezza e decisi, stupidamente, di svolgere i miei "doveri" di maga e confrontarmi con la mia migliore amica Kalena sulle di lei "mancanze". (Accidenti! Mi vergogno anche solo a scrivere queste parole.)

E così, ci incontrammo, e le dissi che doveva fare di meglio. Che aveva bisogno di prestare attenzione, di concentrarsi e lavorare più duramente per liberarsi dei suoi difetti (i quali, avevo sgarbatamente fatto notare, erano parecchi). Ricordo l'espressione sul suo viso. Non era né turbata, né arrabbiata. Anzi, tutt'altro. Prese piuttosto bene la mia raffica di vaneggiamenti condiscendenti, o almeno così pareva. La sua espressione era più di sorpresa che di altro: era semplicemente scioccata che la sua migliore amica avesse potuto assumere una posizione così pretenziosa e parlarle in quel modo (vorrei davvero non averlo mai fatto).

Invece di alterarsi o ribattere (ne avrebbe avuto tutto il diritto), cercò semplicemente di spiegare il suo punto di vista sulla questione:

"Voglio viaggiare per il mondo. Incontrare persone. Aiutarle. Non mi interessano i grandi risultati, il superamento dei confini della scienza e della scoperta. Lascio volentieri queste ambizioni agli ambiziosi. A te, al Maestro Bekker, a Yanna e a tutti gli altri. Ho potere più che sufficiente per fare del bene. Per assistere le persone che hanno davvero bisogno di aiuto. E lo farò. Ho deciso. Presto viaggerò per il mondo come dwimveandra e aiuterò i bisognosi che incontrerò. E sai che ti dico? Non credo che tornerò mai più indietro..."

A volte, il destino ha un modo crudelmente ironico di interpretare i desideri della gente.

"...Non credo che tornerò mai più indietro..."

Quelle parole mi perseguitano ancora, riecheggiano nella mia mente ogni volta che sono sola. Ogni volta che mi concedo un attimo per riflettere sul passato. Un ricordo costante che fui io, le mie azioni, la mia idiozia, a far avverare quelle parole nel peggior modo possibile.

"Siamo forti solo quanto il nostro anello più debole. Pertanto, dobbiamo circondarci di persone del nostro stesso calibro, di pari capacità e speranze, poiché semplicemente non si può volare mentre si è gravati da un peso morto."

Un'altra delle massime di Bekker, in tutta la sua vanagloriosa pseudo-saggezza. E proprio questa è stata la perla che ha stravolto la mia amicizia con Kalena trasformandola in un momento irreversibile di rimpianto e disperazione più totali.

"Mi dispiace, Kalena, ma non possiamo più essere amiche", dovetti dirle stoicamente. Fermamente.

Ma non lo pensavo davvero. Intendevo usarlo come un modo per... spronarla (un ricatto emotivo bello e buono, già, adesso me ne rendo conto). Aveva reagito alle mie parole con calma, perciò non mi aspettavo che avrebbe avuto una reazione così dura al mio sciocco stratagemma. Ma quelle parole... quelle parole la ferirono dentro.

"Vuoi lasciare Aretuza? Allora vattene! Che cosa aspetti? E comunque, qui non ti vogliamo!"

Ancora una volta, non lo pensavo sul serio. Ero solo irritata, agitata e aggressiva, e di conseguenza molto sicura di me stessa (come la maggior parte di noi si sente a metà di un litigio, immagino). Altre parole grosse erano volate, ma non mi preme addentrarmi ulteriormente nel nostro diverbio. Diamine, il peggio credo di averlo rimosso, il che probabilmente è per il meglio... poiché sono certa che se un ricordo così intricato dovesse riemergere, brucerebbe ancora di più. Come si concluse la faccenda, tuttavia, è semplicemente indimenticabile.

Kalena, incapace di comprendere la mia freddezza, alla fine scoppiò in lacrime e corse via. Per ragioni che non saprò mai veramente, fuggì a Tor Lara (forse perché sapeva che era vietato e che, di conseguenza, nessuno sarebbe andato a disturbarla).

Poi, commisi un ultimo errore...

Non contenta di lasciarle i suoi spazi, la seguii. Per confrontarmi con lei, per metterla all'angolo. Ma lei non ne voleva sapere. Voleva essere lasciata in pace. E le restava solo una direzione da prendere per allontanarsi da me. Verso l'alto. Fino alla camera in cima alla torre, dove c'era il famigerato portale. Ma nonostante tutto, non smisi di seguirla, non la lasciai in pace. Anzi, la spinsi verso il suo unico modo per sfuggirmi...

Prima che potessi fermarla, attivò il portale e, senza pensarci due volte, entrò nella luce vorticante e distorta e nel vasto caos cosmico che vi era al di là.

In un lampo accecante, svanì. Per sempre.

Nessuno sapeva quale destino le fosse toccato oltre quel portale abbandonato. I più dicevano che probabilmente era morta, scissa in un milione di frammenti e sparpagliata tra i piani dell'esistenza. Altri ipotizzavano che fosse stata rigettata in qualche terra distante e inospitale, lontana da casa e con pressoché nessuna speranza di sopravvivenza. Ma, ovviamente, nessuno lo sapeva per certo. Non riuscimmo a stabilire cosa fosse successo, e non c'era assolutamente modo di seguirla (anche ammesso che la de Winter autorizzasse un'impresa così pericolosa, cosa che si guardò bene dal fare), poiché il portale instabile era impossibile da sondare. L'unica cosa su cui tutti eravamo d'accordo era che Kalena se n'era andata. E mentre i giorni diventavano settimane, e poi mesi, e poi anni, la triste verità divenne dolorosamente chiara a tutti: non sarebbe mai, mai più tornata.

Tuttavia, nella tristezza che ne seguì, alla fine si manifestò un barlume di speranza.

Pochi anni dopo l'ingresso di Kalena nel portale distorto, un ristretto gruppo di studentesse di Aretuza dell'ultimo anno, me compresa, si erano recate in un piccolo villaggio di Ellander per fornire aiuto (insieme ad alcune sacerdotesse del Tempio di Melitele). La gente del posto era stata colpita da una malattia mortale, e quelli che non potevamo guarire (la magia può arrivare solo fino a un certo punto) dovevano essere messi il più possibile a proprio agio negli ultimi momenti che restavano loro.

Uno dei moribondi che assistevo mi aveva raccontato che una maga itinerante (quella che noi chiamiamo "dwimveandra") si era fermata nel villaggio l'anno precedente ed era rimasta per alcuni giorni ad assistere i locali nel loro lavoro (gestire il raccolto, tosare pecore e via dicendo). La descrisse come una delle persone più amichevoli che avesse mai avuto il piacere di incontrare e, sebbene non ricordasse perfettamente il suo nome, era convinto che iniziasse con la lettera "K" ("Kayden, Kayla, Keena o nomi simili, aveva detto).

Nient'altro.

E fu più che sufficiente per darmi speranza.

Naturalmente, mi resi conto che le possibilità che fosse Kalena erano piuttosto scarse. Ma scarso è meglio di niente, dopotutto. E così mi conforta l'idea della possibilità che la mia amica sia ancora là fuori, da qualche parte, a inseguire il suo sogno. Ad aiutare le persone ovunque si trovi. A cambiare il mondo non con grandi imprese, ma attraverso umili gesti di generosità e gentilezza, uno alla volta. A essere Kalena, essenzialmente.

Se è davvero così, e spero disperatamente che lo sia, allora forse, e solo forse, le nostre strade un giorno si incroceranno di nuovo e finalmente potremo sistemare le cose.

Mi piacerebbe molto.

La mia ultima settimana ad Aretuza giunse molto prima del previsto. Principalmente, perché lasciai la scuola. (Una decisione di cui mi compiaccio ancora oggi.)

Col senno di poi, era nell'aria da tempo.

All'inizio, mi ero lasciata accecare da una visione predeterminata di come sarebbe stato il mio successo. Mia zia mi aveva detto chi sarei diventata, e io avevo tentato, con tutte le mie forze e tutto il mio temperamento, di diventare quella persona. Per anni, era stata la mia intera identità, e devo ammettere che trovavo un certo grado di rassicurazione in quel destino.

Quando cominciai a chiedermi cosa volessi davvero dalla vita, ormai ero già una giovane adulta. Cosa mi avrebbe dato gioia? Senso di appagamento? Quale volevo che fosse il mio lascito? La notte dei festeggiamenti dello Scontro del Caos, Kalena aveva piantato in me il seme del dubbio riguardo alle mie aspirazioni, e in seguito, con le sue parole di commiato, mi aveva instillato il desiderio di rivalutare, e alla fine di ricalibrare⁠, i miei obiettivi. Incapace di togliermi dalla testa la sua idea di diventare una dwimveandra, accarezzai anch'io quella possibilità e cominciai a capire perché perseguire un tale scopo fosse allettante. Era una vita che offriva libertà, avventura e opportunità di fare del bene ogni giorno. Pensarci mi riempiva di un calore sconosciuto, una sensazione che mi piaceva, e immaginarmi intenta in una vita simile era una visione sempre più invitante.

In mancanza di un termine migliore, ero stata innescata, in attesa solo di un culminante momento di lucidità. Eppure, questo momento non arrivò che al mio ultimo anno, quando accolsi con tutta me stessa il cambio di direzione da tempo imminente. E la spinta finale di cui avevo bisogno, come si evinse, provenne da una tra le più improbabili delle fonti.

Come membro anziano dei vertici della gerarchia studentesca (o comunque qualcosa del genere...), ero stata assegnata a una delle nuove adepte affinché le facessi da mentore durante il periodo propedeutico del primo anno (era obbligatorio, e un modo per preparare le future diplomate all'opportunità di diventare, un giorno, Signora di Aretuza). Avevo ricevuto l'incarico di gestire una ragazzina pelle e ossa dagli occhi da cerbiatto di nome Skylark. Dopo averla incontrata, ben presto mi resi conto di quanto le mie precedenti passioni si fossero erose durante i miei giorni di scuola. Innanzitutto, era traboccante di entusiasmo per il Dono e l'Arte, ed era innegabilmente infatuata dei princìpi che sostenevano la nostra magica istituzione. Inoltre, era la ragazza più decorosa che avessi mai incontrato, sia dentro sia fuori da Aretuza. Ad esempio, durante una delle nostre numerose sessioni di studio, una volta disse: "Se la magia è caos, allora è logico che tutti coloro che la brandiscono debbano abbracciare l'ordine. Per evitare l'anarchia." (In quel momento, qualcosa dentro di me mi disse che sarebbe diventata una Signora di Aretuza, se non addirittura la direttrice. E non mi sbagliai.)

Posso affermare con discreta certezza che questa ragazza senza pretese fu il colpo di grazia inflitto ai resti del mio io passato, l'affondo finale che spezzò le consunte catene alle quali mi stavo aggrappando così disperatamente. E così, una volta rivelatisi a me i miei veri desideri con cotale limpidezza, capii esattamente cosa avrei dovuto fare.

Sorprendentemente, zia Aurora prese piuttosto bene la notizia della mia imminente rinuncia (in senso relativo)...

"Se uno scommette su una corsa di cavalli, mia cara, naturalmente costui si produrrà in tutto l'incoraggiamento possibile per sostenere il destriero prescelto. Ma a cosa serve urlare e gridare a una cavalla che non vuole più competere? Hmm? A mio avviso, sarebbe solo un terribile spreco di fiato."

Non sono certa di aver compreso appieno la sua analogia, specialmente la parte sulle scommesse (aveva puntato su di me?), ma non manifestai la mia preoccupazione, poiché il suo blando tono di disapprovazione mi aveva più che accontentata. Era sicuramente meglio della risposta veemente che mi aspettavo di sentire. (Il mio impegno negli studi, in quel momento, era altalenante, perciò immagino che la zia sapesse che qualcosa non andava e si fosse già preparata alla mia incombente rivelazione.)

Tuttavia, ancora non mi capacito di quanto velocemente le cose cambiarono durante quell'ultimo anno. Di punto in bianco, con una totale inversione di tendenza, passai da promettente protetta a emarginata da evitare (d'accordo, potrei aver omesso la parte in cui la de Winter suggerì "sottilmente" che non ero più la benvenuta negli androni della sua accademia... ma direi che meno si accenna a quel fatto meglio è...).

E così, fatti i dovuti saluti e insieme alle poche cose che avevo con me, mi congedai dalla mia amata Aretuza e mi avventurai nel mondo per viaggiare come una dwimveandra.

E il caso vuole... che non sono più tornata.

Ultimamente, le giornate si sono fatte più corte e fredde, e mi ritrovo ancora una volta a passare più tempo al chiuso, crogiolandomi nella comodità del focolare (quando la mia dimora può permettersi un lusso simile, ovviamente). Questo significa anche che di recente ho nuovamente più tempo per dedicarmi a redigere i miei appunti.

Ho trascurato i miei doveri nei confronti del diario durante l'ultimo anno. Dopo aver concluso le mie memorie, mi sono ritrovata nuovamente in balia dell'incostanza, affidandomi all'illusione che avrei potuto semplicemente contare sulla mia memoria per quanto riguarda gli eventi dei miei viaggi quando mi sarei occupata di registrarli in seguito (più facile a dirsi che a farsi). La zia Aurora sarebbe molto contrariata per questo approccio indolente. Sottolineava sempre l'importanza della costanza, anche quando non si aveva voglia di fare qualcosa (anzi, soprattutto quando non se ne aveva voglia). Diceva che "non possiamo fare affidamento solo sulla motivazione per superare i momenti difficili. Serve un impegno costante⁠. Solo l'impegno garantisce la costanza." Impossibile criticare la sua logica.

In ogni caso, non è il mio senso del dovere a guidare la mia mano⁠, ma solo la mia motivazione (posso solo immaginare lo sguardo severo di Aurora che mi giudica dall'altra parte del Continente). Sono ispirata a scrivere poiché credo che la situazione in cui attualmente mi trovo richieda documentazione. Sembra essere un affare importante. Quantomeno è curioso e, oserei dire, nefasto nel peggiore dei casi (sospetto fortemente la seconda ipotesi).

Sembra che l'atteggiamento generale nei confronti dei maghi sia cambiato, e non in meglio. Un paio di mesi fa, sono stata allontanata da un villaggio da un consigliere ostile e alquanto scortese. "Non vogliamo le carogne come te! Vattene! Sparisci!" mi ha sbraitato addosso prima di prodursi in una vigorosa scatarrata nella mia direzione. È stata la prima volta, da quando sono partita da Aretuza, che mi sono imbattuta in una tale animosità e, purtroppo, non è stata l'ultima. Molte altre comunità rurali mi hanno rifiutata. Perfino borghi che ho visitato in precedenza e dove avevo costruito relazioni e stretto amicizie mi hanno negato apertamente la loro consueta ospitalità.

Evidentemente, c'era qualcosa che mi sfuggiva.

Qualche giorno fa, tuttavia, ho avuto la fortuna di imbattermi in una viandante come me. Era una ragazza, un bardo, e pareva afflitta da una peculiare maledizione (o, forse, era una specie di burla e si prendeva gioco di me). Sosteneva di non poter pronunciare una sola parola senza canti e rime, e, dopo aver ascoltato il suo cianciare strofa dopo strofa, non ho potuto fare a meno di crederle (nessuno si esprimerebbe sempre così, a meno di non essere costretto a farlo).

In ogni caso, abbiamo viaggiato insieme per un giorno (doveva incontrare un amico che era certa avrebbe spezzato il sortilegio canterino), e durante il nostro tempo insieme ha cantato degli eventi a cui ha assistito in una vicina città la settimana precedente:

«La città era in subbuglio, le emozioni strette al gozzo,

Un cerbiatto avean trovato, macellato su di un pozzo,

Le sue carni sbudellate, scucchiaiati erano gli occhi,

Di gran male un rituale, dubbi privi di rintocchi.

Ma fortuna ebbero quando giunsero gli esperti,

"Troveremo il vil colpevole e ce ne andremo sol se certi!"

E così costoro indagarono in ogni direzione,

e trovarono la fonte della lor disperazione.

Scoprirono una strega dal malvagio intento,

Che scappare non poteva, e la fermaron con portento.

Costruirono una pira, e ancor viva la bruciarono,

Chiesti quindi soldi in cambio, celermente se ne andarono.»

Forse ho parafrasato qualcosina (non mi intendo di poesia), ma il senso generale permane.

Durante la mia vita, ho sentito numerose storie di maghi, corrotti dal potere (o semplicemente indifferenti alla sofferenza degli altri), dediti ad attività moralmente dubbie. E ovviamente ho sentito aneddoti di persone innocenti finite tra le grinfie di questi discutibili personaggi.

Ma questa era diversa.

La trovatrice mi ha detto che aveva sentito molte altre storie di streghe malvagie, ed è persino arrivata ad affermare che si tratti di una sorta di flagello.

Naturalmente, non ci credo neanche un po' (e nemmeno lei, se è per questo).

C'è tuttavia qualcosa di terribilmente sbagliato. I maghi non diventano cattivi in massa, tutto a un tratto. Che diamine, non ci sono nemmeno abbastanza maghi nei Regni Settentrionali per giustificare così tanti casi, specialmente qui in campagna.

Così, ho deciso di indagare sulla questione, perché sicuramente ne vale la pena.

Finora, non ho molto sul piatto e, a causa delle circostanze, molte persone sono, come è prevedibile, poco collaborative. Ma ho una pista. Un nome menzionato dal bardo, un nome di cui ho sentito parlare nelle poche taverne in cui ho avuto la fortuna di trovare alloggio.

Un nome che, ne sono certa, mi condurrà all'origine di questo strano fenomeno⁠. Se non altro, è qualcosa di tangibile sul quale posso investigare.

E quel nome è "Hale".
 
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